(Questo articolo di Leonardo De Chirico è la traduzione adattata di un saggio pubblicato nel libro Association. Local Independent Baptist Churches in Fellowship and Mission, edd. R. King & A. King, London, Grace Publications 2021, pp. 141-172).

La presenza dei battisti in Italia risale all'unificazione del Paese (1861) e alla fine dello Stato Pontificio (1870). I primi missionari della British Baptist Mission Society (Clark and Wall, 1863) e della nordamericana Southern Baptist Convention (Cote, 1870) furono caratterizzati da un ammirevole zelo evangelistico, ma da una mancanza di profondità teologica.

Nel 1884 i rami britannici e americani si fusero in un'unica entità, unendo le forze nell'affrontare un’impresa tanto grande quanto l’evangelizzazione dell’Italia unita.[1] Mentre in Gran Bretagna Charles Spurgeon metteva in guardia i battisti dai pericoli del liberalismo e negli Stati Uniti il movimento fondamentalista incoraggiava gli evangelici a difendere il nucleo dell’evangelo biblico dalle re-interpretazioni liberali, i missionari battisti in Italia non diedero alle chiese una consapevolezza teologica degna di questo nome. Si accontentarono di porre le basi per sopravvivere in una cultura ostile dominata dal cattolicesimo romano. Nel complesso, si trattava di battisti generali con un atteggiamento tendenzialmente indifferentista rispetto alla necessità di chiarezza teologica nelle controversie interne al protestantesimo della loro generazione.

Non sorprende, pertanto, che quando l'Unione Battista fu infine costituita nel 1956, essa si identificò presto con l'ala liberale ed ecumenica del protestantesimo. La sua associazione al Consiglio Ecumenico delle Chiese (1977), la riformulazione in senso barthiano della sua confessione di fede (1990), il patto con le chiese valdesi e metodiste (BMV: battisti, metodisti e valdesi) di tendenza liberale (1990) e l’allineamento agli sviluppi del liberalismo in dottrina e in etica non furono che conseguenze di quella scelta programmatica.[2]

Da un altro campo battista, quello “evangelicale”, un altro flusso di presenze battiste iniziò alla fine degli anni Quaranta del Novecento intorno alla città di Napoli. I battisti conservatori statunitensi (ora WorldVenture) inviarono missionari per fondare chiese in quella zona insieme a una casa editrice e attività per bambini. Nel contesto di questi sforzi missionari, va segnalata la pubblicazione del Catechismo di Spurgeon in italiano.[3] Queste chiese battiste generali (con 5 congregazioni locali) si costituirono come associazione nel 1972 (AEBI, Assemblea Evangelica Battista in Italia) che continua fino ad oggi.

1. L’interesse per la teologia riformata
Un evento significativo che ha incoraggiato la crescita della presenza battista riformata in Italia è stata la pubblicazione della Confessione di fede di Londra del 1689 da parte della rivista teologica dell'Istituto di Formazione Evangelica e Documentazione (IFED) di Padova – Studi di teologia – in occasione del terzo centenario (1989). Per la prima volta fu reso disponibile in italiano il più importante documento confessionale dei battisti riformati.[4]  L'interesse per la teologia riformata è stato promosso anche dall'opera pionieristica del teologo italiano Pietro Bolognesi[5] e incoraggiato dalla circolazione di opere a partire dagli anni Novanta dei Puritani, dei Princetoniani della Old Princeton e di autori odierni come M. Lloyd-Jones, J.I. Packer, W. Chantry, J. Piper e M. Dever.[6] Dal 1988 l'IFED iniziò a fornire risorse (ad es. Studi di teologia, conferenze teologiche annuali, corsi di cultura teologica, laboratori per predicatori) che hanno formato una generazione di lettori e responsabili di chiesa che si sono avvicinati alla teologia riformata.

La combinazione di questi fattori ha creato il contesto affinché la presenza battista riformata andasse oltre un generico interesse per la teologia riformata. Un primo tentativo fu fatto da ACERI (Associazione Chiese Evangeliche Riformate in Italia) nel 2002, una rete di chiese in Sicilia strettamente associata alla European Missionary Fellowship (EMF). Nonostante le sue buone intenzioni, ACERI non è mai decollata ed è stato un tentativo di breve durata. Altre chiese e iniziative missionarie, sebbene facessero e facciano riferimento a un'identità vagamente riformata, continuarono a operare all'interno dell'indipendentismo e attraverso collegamenti para-ecclesiali come le conferenze missionarie.

Altre chiese locali iniziarono ad adottare la Confessione di fede di Londra del 1689 e a modellare la vita della chiesa secondo i principi riformati battisti. Queste chiese iniziarono a sviluppare una rete di pastori e di chiese che condividevano la visione teologia ed ecclesiologica. Nel 2006 le Chiese Evangeliche Riformate Battiste in Italia (CERBI) si unirono a Bologna per formare la prima e unica associazione di Chiese riformate battiste nel Paese.[7] La rete di collegamento CERBI fu costituita associando chiese locali che avevano attraversato un percorso di riforma dottrinale ed ecclesiologica da ambienti del movimento “dei fratelli”, pentecostali ed indipendenti. In genere, questi passaggi hanno comportato l'apprezzamento della teologia riformata, l'avvicinamento di chiese con idee simili che stavano vivendo lo stesso processo, l'adozione della Confessione di fede del 1689[8] ed il riorientamento della vita della chiesa secondo parametri confessionali e confessanti.

Come accade in tutte le transizioni, il percorso non è stato esente da polemiche e controversie, ma ha comunque attestato la determinazione di offrire all'Italia l'opportunità di avere un'associazione di chiese riformate battiste che coltivasse la fratellanza interna tra i membri e costruisse una piattaforma per gli sforzi cooperativi per il progresso dell'opera evangelica. Uno dei modelli radicati della cultura italiana è il suo dilagante individualismo sotto il rispetto formale di un'autorità lontana e delegittimata. Riflettendo questa tendenza culturale, la testimonianza evangelica (anche missionaria) ha spesso sofferto di frammentazione e tendenze isolazionistiche. La possibilità di formare un'associazione confessionale nel contesto del congregazionalismo ecclesiologico fu uno sviluppo nuovo e promettente.

2. Le chiese CERBI
Finora, le chiese CERBI sono un esempio di associazione relativamente sana, stabile e lungimirante. Fornisce quindi un utile esempio in divenire di cosa significhi avere un'associazione di chiese confessionali e confessanti in un contesto minoritario. Le chiese CERBI furono avviate da 6 chiese nel 2006, mentre nel 2021 il numero di chiese associate è arrivato a 14. Le chiese CERBI non sono una denominazione in quanto tale, dato che il congregazionalismo è il suo quadro ecclesiologico di riferimento. Rispettando l'importanza delle chiese locali, le chiese CERBI sono collegate tra loro su base confessionale e ciò crea il contesto per la cooperazione su progetti concordati.[9] Mentre altre chiese evangeliche mantengono un interesse per la teologia riformata che non si traduce nella sottoscrizione di alcuna confessione riformata storica né nell'associazione con altre chiese, le chiese CERBI sono un esempio unico della possibilità per le chiese confessionali di operare in un quadro congregazionalista sfruttando la forza dell’azione comune su progetti possibili. Nella concezione ecclesiologica delle chiese CERBI, questa prospettiva è chiamata “congregazionalismo di comunione”.[10]

Le chiese CERBI cercano di sviluppare ministeri comuni tra le chiese, in particolare per i pastori (ad esempio gli incontri periodici o "Compagnia degli Anziani") e per tutti i membri delle chiese (ad esempio l’"agape" che si tiene il 25 aprile di ogni anno). La struttura dell’associazione è mantenuta il più "leggera" possibile con una Commissione referente di 3 pastori (eletta ogni 3 anni) che si occupa di attuare le decisioni prese dalla Compagnia degli Anziani e un'altra Commissione di 3 pastori che ha il compito di valutarne l’operato e di riferire alla Compagnia degli Anziani.

Nel 2015 è stata redatta una Dichiarazione programmatica che afferma: 

Le Chiese Evangeliche Riformate Battiste in Italia sono:

  •  Radicate nella Scrittura, Parola di Dio, in accordo con la fede riformata classica;

  • Alleate in una rete ecclesiale per il sostegno reciproco e la crescita;

  • Impegnate ad assimilare, annunciare ed applicare l’evangelo di Gesù Cristo in ogni ambito della vita;

  • Proiettate verso l’estensione del Regno di Dio, promuovendo il rinnovamento spirituale, sociale e culturale finché il Signore venga.

Nel contesto italiano dove prevalgono le roccaforti del cattolicesimo romano e della secolarizzazione, gli evangelici devono sviluppare la loro testimonianza con una visione profonda e ampia. Per questo le chiese CERBI cercano di essere un incoraggiamento per tutti gli evangelici italiani ad avere un'identità radicata nella Scrittura e nella ricca storia della chiesa evangelica fedele. Sostenendo il lavoro dell'IFED, il loro desiderio è quello di influenzare anche gli evangelici non riformati a sviluppare una fede evangelica fedele e robusta, oltre a favorire la conoscenza della fede evangelica nel contesto culturale italiano imbevuto di cattolicesimo e secolarizzazione.

Le chiese CERBI si dedicano anche alla promozione di progetti di fondazione di chiese e alla testimonianza comune delle chiese in Italia. Dalla sua fondazione sono stati avviati diversi progetti di fondazione di chiese, ad esempio Breccia di Roma (2010), Rovereto (2011), Milano (2012), Breccia di Roma San Paolo (2018) e Verona (2020). Ciò indica il fatto che l'associazionismo è un grande incoraggiamento alla fondazione di chiese in quanto invita le chiese associate a condividere visioni e risorse. Ciò è particolarmente importante in contesti minoritari come l’Italia che sono generalmente caratterizzati da realtà di chiese locali piccole e sparse.

3. “Collaboratori nel campo di Dio”
L'Italia è un campo di missione e un'associazione di chiese riformate battiste dovrebbe pensare a come implementare sane collaborazioni tra chiese locali e agenzie missionarie o singoli missionari. Le chiese CERBI hanno dedicato una certa attenzione all'elaborazione di alcune linee guida su come inquadrare tale relazione. Il documento che è risultato: “Collaboratori nel campo di Dio. Sul rapporto tra chiese e missionari/agenzie missionarie” (2018), riassume bene alcuni importanti punti ecclesiologici e missiologici. Vale la pena di riprodurre ampi stralci del documento.

“Collaboratori nel campo di Dio” (1 Corinzi 3,9) è il modo in cui l’apostolo Paolo descrive la rete di soggetti diversi, comunque tutti appartenenti alla chiesa universale, che sono attivi nell’opera di Dio. La convinzione sottostante è che Dio ha affidato al suo popolo, unico e composito allo stesso tempo, il mandato di vivere responsabilmente nel mondo (Genesi 1,27-28), annunciando la buona notizia di Gesù Cristo e facendo discepole le nazioni sino alla sua seconda venuta (Matteo 28,18-20). La chiesa è quindi depositaria di questa alta missione che ne definisce l’identità e che deve essere svolta coltivando al proprio interno uno spirito collaborativo.

In linea con l’insegnamento biblico, le chiese talvolta incaricano emissari specifici per servizi a sostegno dell’evangelizzazione e dell’edificazione della chiesa stessa. All’interno della rete delle chiese, queste persone sono mandate per sostenere l’opera (Filippesi 2,25), fondare nuove chiese (Atti 13,2-3), prestare servizi vari (Atti 11,30 e 12,25; Atti 15,30). Dentro questi movimenti c’è sufficiente elasticità non imbrigliabile in rigidi percorsi istituzionali, ma anche un accentuato senso di appartenenza all’unica chiesa e alla necessità della rendicontazione, cioè della condivisione di percorsi di servizio. Nel corso della storia, queste strutture leggere di collegamento tra chiese mandanti e chiese riceventi, sono state chiamate “missioni” o “opere missionarie”. Le missioni sono pertanto agenzie paraecclesiali che collegano chiese e gruppi di chiese all’interno della chiesa universale e che facilitano lo svolgimento del mandato del Signore.

Nella storia moderna della chiesa, queste agenzie sono diventate dei veri e propri protagonisti della missione, mostrando una notevole capacità progettuale tendenzialmente indipendente o tangente la vita delle chiese, al confronto della quale la realtà delle chiese locali o denominazionali è via via diventata più introspettiva, localistica e non sempre in grado di coltivare una visione missionaria degna di questo nome. Il ruolo delle chiese locali o denominazionali è diminuito, quello delle missioni è cresciuto, spesso ribaltando il carico delle responsabilità e i ruoli di ciascuno.  

Nella realtà della chiesa evangelica contemporanea, troppo spesso i rapporti tra le chiese e le “missioni” si sono invertiti, con queste ultime che sono divenute snodi centrali delle iniziative e le chiese che sono diventate, e già lo erano, soggetti tendenzialmente passivi. Ciò ha creato evidenti squilibri ecclesiologici con pesanti e negative conseguenze sull’assetto complessivo della chiesa. Non di collaborazione si è trattata, ma di sostituzione. Non di sinergia, bensì di autonomia. Non di partnenariato, piuttosto di competizione o di reciproca indifferenza. Per ovviare a ciò, il Patto di Losanna (1974) ha opportunamente invitato tutti a ripensare la relazione tra chiese e agenzie missionarie nello spirito della collaborazione nell’evangelo:

“Ci esortiamo vicendevolmente a sviluppare una cooperazione locale che sia funzionale ad assistere la missione della chiesa, a elaborare progetti validi, a incoraggiarci reciprocamente e a condividere risorse ed esperienze” (n. 7).[11]

Risulta evidente che la “missione” in quanto agenzia paraecclesiale è chiamata ad assistere la chiesa/le chiese locali in uno spirito di condivisione circolare di doni e di collaborazione nella promozione dell’opera di Dio. D’altro canto, la chiesa/le chiese devono riappropriarsi di un ruolo che spetta loro nel piano di Dio, senza concedere deleghe in bianco o assumere atteggiamenti remissivi. La relazione, quindi, deve essere riequilibrata in modo da ricostruire la primaria responsabilità delle chiese nello svolgimento del mandato divino e la sussidiaria funzione delle agenzie para-ecclesiali nel sostenerne l’opera.

Ciascuna delle nostre chiese ha avuto o ha in corso esperienze saltuarie e/o continuative di collaborazione sul campo con agenzie missionarie e/o con missionari. Altre potranno aprirsi nel futuro. Nel nostro immaginario ci sono vissuti che variano da storie di co-esistenza segnata da reciproca indifferenza o diffidenza fino a fruttuose intersezioni caratterizzate da organica integrazione. Più in generale, in Italia, anche a causa di una ecclesiologia prevalente segnata da identità instabili e localistiche e da condizioni di grande precarietà delle chiese, da un lato, e da un generale spirito indipendentista e disinteressato al contesto locale delle missioni estere, dall’altro, non sempre si sono stabiliti modelli biblicamente sani di relazione.

Questo motivo non è di per sé sufficiente per nutrire sentimenti di scetticismo di fronte a possibili sviluppi futuri. Anzi, è nostro compito lavorare per re-impostare la relazione in termini virtuosi sul piano biblico e responsabili su quello missiologico. Ciò richiede l’impegno a rivedere biblicamente gli assetti ereditati dal passato sia da parte delle chiese che devono maturare la propria visione missionaria, sia da parte delle agenzie missionarie e/o dei missionari il cui compito è arricchire la vita e la testimonianza della chiesa e non di lavorare in modo auto-referenziale. La presenza di agenzie missionarie e di missionari è una risorsa preziosa per la vita delle chiese, l’evangelizzazione e la fondazione di nuove chiese. Il nostro desiderio è di essere parte attiva di un processo di reciproca fecondazione finalizzata all’espansione del regno di Dio in Italia.

E’ evidente che, mentre per attività diaconali, evangelistiche, di preghiera, di rappresentanza istituzionale del popolo evangelico o di sostegno alla libertà religiosa il livello sufficiente di accordo dottrinale sia quello indicato nella Dichiarazione di fede dell’Alleanza Evangelica,[12] la fondazione di chiese e il ministero dell’anzianato nella chiesa necessita di un accordo dottrinale stringente basato sulla Confessione di fede battista del 1689. Non è pensabile fondare nuove chiese né condividere le responsabilità della conduzione se non si abbraccia insieme l’ecclesiologia confessionale e confessante che contraddistingue le nostre chiese.

La presenza riformata battista in Italia oggi, per quanto ancora limitata, costituisce uno dei perni del movimento evangelico contemporaneo ed è un lievito al servizio della testimonianza dell’evangelo nel Paese.

[1] La storia dei primi decenni è raccontata da D. Maselli, Storia dei battisti italiani 1873-1923, Torino, Claudiana 2003.

[2] Un racconto interno della storia dell’UCEBI si trova in M. Ibarra Pérez, Costruire la comunione. I primi 60 anni dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, 1956-2016, Chieti, GBU 2016.

[3] C.H. Spurgeon, Un catechismo, Napoli, Centro Biblico 1966.

[4] “La confessione di fede battista del 1689”, Studi di teologia NS I (1989/2) N. 2.

[5] Il Festschrift in occasione del suo 70 compleanno dà un’idea dell’impatto che Bolognesi ha avuto sulla teologia evangelica italiana. Si veda “Il coraggio della verità. Studi in onore di Pietro Bolognesi in occasione del suo 70° compleanno”, Studi di teologia NSXXVIII (2016/2) N. 56. Di particolare rilevanza per l’ecclesiologia riformata battista sono i suoi libri Il popolo dei discepoli. Contributi per un’ecclesiologia evangelica, Caltanissetta, Alfa&Omega 2002 e “Elementi di ecclesiologia”, Studi di teologia NS XXIV (2012/2) N. 48.

[6] Attraverso case editrici italiane tra cui Alfa & Omega, Passaggio, Coram Deo, BE Edizioni, ed altre, decine e decine di libri riformati sono stati pubblicati.

[7] “Italy: Reformation starts again’, Evangelicals Now (June 2006), p. 9; “Italy’, Evangelical Times (June 2006) p. 9.

[8] La Confessione del 1689, insieme al Catechismo di Spurgeon, è stata in seguito ripubblicata dalle chiese CERBI nel volume La fede riformata battista, Caltanissetta, Alfa & Omega 2012.

[9] P. Patuelli, “An Update from Italy”, Reformation Today n. 267 (2015) pp. 23-25.

[10] L’ecclesiologia di comunione è un vissuto di relazioni inter-ecclesiali il quale riconosce che, biblicamente parlando, la vita della chiesa locale deve stabilire rapporti di comunione con altre chiese locali basate sulla comune confessione della fede evangelica e mirati al sostegno dell’opera nei vari territori in cui esse sono dislocate” (Compagnia degli Anziani 1/2014). Si veda la Confessione di fede di Londra (1689), art. 26.7; 26,14-15.

[11] https://www.alleanzaevangelica.org/documenti/2014-4_pattodilosanna.pdf o in Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1996, a cura di P. Bolognesi, Bologna, EDB 1997, p. 54. Sul contributo del Movimento di Losanna a questa discussione, vedi anche il Lausanne Occasional Paper, n. 24 “Cooperare nell’evangelizzazione mondiale: una manuale sulle relazioni tra chiesa e para-chiesa” (1983): https://movimentolosanna.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/11/LOP24-IT.pdf

[12] http://www.alleanzaevangelica.org/index.php/che-cos-e-l-aei/dichiarazione-di-fede ; anche in P. Bolognesi – L. De Chirico, Il movimento evangelicale, Brescia, Queriniana 2002, p. 93.